C’è una parola che sta diventando popolare in questi ultimi tempi ed è inbound marketing.
Ma ha a che fare più con la vendita che non con la comunicazione, dal momento che gli obiettivi che si pono sono squisitamente legati alla generazione e alla segmentazione dei potenziali clienti.
Da qualche anno a questa parte giornali, tivu e politici si danno alacremente da fare per parlarci di Industria 4.0, spiegandoci come le nuove tecnologie di analisi, gestione e controllo informatizzati possono contribuire alla costruzione di modelli di lavoro più efficienti, migliori, come questo possa cambiare il mondo del lavoro.
E, per carità, è tutto vero. Ma nessuno viene a spiegarci che anche il commerciale è cambiato, che fare il commerciale non è più “portare il catalogo al cliente” e che questa famosa “economia dell’informazione,” nella quale il dato – ci dicono – vale più del petrolio, è qui, è ora, è adesso… anche se le nostre aziende non stanno agganciandosi al traino di questa rivoluzione.
Ma come sta cambiando il commerciale nel XXI secolo?
Uno dei libri che ce lo può far capire è quello scritto dal 2009 da Brian Halligan e Dharmesh Shah, “Inbound Marketing”, dove si dimostra, con numeri alla mano, la difficoltà del venditore di farsi aprire la porta del potenziale cliente, di quanto le telefonate in azienda fatte random abbiano rendimenti sempre più bassi, la costruzione di liste e l’invio martellante di email funzioni sempre meno…
Nel libro arrivano a dare un nome a tutte le vecchie metodologie, accumulandole, per le pratiche di interruzione, in un’unica macrocategoria: outbound marketing.
Ma il venditore outbound interrompe le persone, sbagliando il contesto e il momento in cui fare la propria offerta ad un potenziale cliente interessato e, di fatto, lo allontana, rovinando il posizionamento e il percepito del servizio o prodotto offerto.
Secondo Halligan e Shah c’è un modo diverso di fare le cose e questo è reso disponibile da un mix di metodo e tecnologia. Prendiamo Google:
Google ci attira con un motore di ricerca gratuito verso l’utilizzo dei i suoi servizi (e il motore di ricerca funziona davvero bene, tanto da aver sbaragliato la concorrenza).
Una volta che siamo abituati ad usare il motore di ricerca gratuito, comincia a proporci altri servi, come una posta elettronica che funziona benissimo, Gmail.
Ma in cambio della posta elettronica ci chiede un pagamento “in dati”: nome, cognome ed indirizzo. Lo stesso dicasi per Android: nome, cognome ed indirizzo per attivare i suoi servizi.
Ma da quel momento succede la magia: Google inizia a tracciare il nostro comportamento con le ricerche e nella navigazione sul web (grazie a Google Analytics che noi installiamo per analizzare statisticamente i nostri siti, incuranti che ci siano servizi che fanno la stessa cosa, senza profilare i nostri visitatori per conto di una multinazionale americana).
Le informazioni raccolte, servono a segmentare gli utenti e a profilarli. google usa queste informazioni per vendere pubblicità che funziona.
Ma se portiamo questa pratica nella piccola, media e grande azienda italiana, possiamo portare a casa risultati con la metodologia spiegata nel libro. Ecco cos’è l’inbound marketing, una metodologia che utilizza il sito web per attrarre potenziali clienti grazie a qualcosa che questi possono trovare interessante (ad esempio dei contenuti del blog), per poi convertirli come lead di un database, con un’offerta di maggior valore (ad esempio un webinar, un ebook, un evento); e poi alimentarli per “stimolare” l’interazione con i contenuti del sito, al fine di capire a quali ambiti sono interessati e, capendo quando è il momento opportuno per contattarli, qualificarli commercialmente e passare la palla alle vendite. Halligan e Shah hanno costruito un software per gestire tutto questo processo, Hubspot, oggi uno dei leader mondiali tra i CRM di nuova concezione, che ha cambiato le regole della comunicazione su web e della gestione commerciale del contatto.